25 marzo 2010

Social media per commercianti: Facebook fa gola a tanti però…


La rivoluzione di Facebook comincia lentamente a fare gola anche ai piccoli dettaglianti. Sono molti i casi di aziende commerciali che lo utilizzano (con alterne fortune) per la propria attività: negozi di abbigliamento che “reclutano” le proprie clienti per fotografarle con gli abiti dell’ultima collezione, oppure imprenditori illuminati che tentano di innovare un prodotto in crisi con una comunicazione di rottura, che avviene non più verso un potenziale cliente, ma verso un potenziale “amico”. Un amico di Facebook, ovviamente.

Facebook è una rivoluzione ma, come ho cercato di spiegare ieri al seminario di Lugo, provincia di Ravenna, il consumatore è comunque alla ricerca di informazioni, fa confronti tra prodotti, scambia suggerimenti, cerca la lealtà dell’informazione indipendente.

Quello che va messo in conto però è la continuità con cui necessariamente si curano le relazioni veicolate dalla rete. Essere quotidianamente alla ricerca del modo più efficace può diventare un mestiere vero e proprio, che impegna sia in termini di tempo che di energie. Troppo per un commerciante, forse.

Non considerare questo tipo di coinvolgimento fa si che, nella migliore delle ipotesi, si incominci l’impresa con tante aspettative di ritorno in termini di business che in realtà non si concretizzano, oppure, nella peggiore, nella vanificazione della web reputation alla ricerca della notorietà a tutti i costi.

Affidarsi a un consulente esterno può diventare una chance, egli può curare per il piccolo negozio al dettaglio tutte le fasi della comunicazione in rete con il proprio social circle, magari integrando tra loro gli strumenti che meglio si adattano all’impresa, a patto di instaurare con lui un rapporto dialogico e fortemente improntato sulla creatività, senza timori o resistenze.

Molti, infatti, se non tutti, i commercianti con cui ho avuto modo di parlare, mi hanno dato l’impressione di essere fortemente attratti dai numeri astronomici di Facebook, ma di essere ancora scettici rispetto alle modalità con cui approcciarsi ad esso in maniera efficace.

Il digital divide non aiuta di certo, così come la scarsa conoscenza del web in senso lato (i 16 milioni di utenti di Facebook in Italia sono in realtà poco più che neofiti del web): c’è ancora troppo sospetto verso un ambiente che permette di parlare con chiunque, senza filtri, a qualsiasi latitudine. Il costo zero dello strumento poi non convince fino in fondo. Paradossalmente gli strumenti tradizionali del “pago quindi pretendo (risultati)” trasmettono più sicurezza, e i piccoli commercianti sono frenati nell’approccio ai social network, diventando inesorabilmente followers piuttosto che pionieri del nuovo media.

Se la propria presenza sui social network si traduce nella replica delle modalità tradizionali di vendita, si rischia di far decadere rapidamente l’interesse del proprio social circle.

Al contrario, se questa modalità parte da un approccio low profile, che consiste in piccoli ma significativi interventi, in contenuti singolari, ai quali viene associato un volto, un expertise, una peculiarità di nicchia (diversa da caso a caso e riguardante il prodotto, il servizio o le persone che fanno parte dell’organizzazione), allora esiste la chance dell’apertura di un canale veramente efficace, che valorizzi anche ciò che tradizionalmente rimane solo una sensazione positiva, valevole al più di un passaparola limitato.

18 marzo 2010

Il non-luogo dei centri commerciali contro il non-ruolo dei centri storici: risultati di un’indagine rivolta ai consumatori dell’Emilia Romagna


“Andiamo a fare un giro, a passeggiare e guardare le vetrine. Portiamo i bambini a giocare. Beviamo un caffè, i bambini mangiano un gelato. Scambiamo quattro chiacchiere, tanto si incontra sempre qualche conoscente. La musica rende lo shopping ancora più piacevole. È inverno, sì, ma in fin dei conti non si sente.

Siamo in un centro commerciale. Ci sentiamo anestetizzati rispetto a quanto succede fuori… si entra col sole, si esce con la notte… Per questo qualcuno sostiene che ci troviamo in un nonluogo.

Ci troviamo in un ambiente nato per costringerci a consumare artificialmente, dicono. Ma qui si passeggia e parcheggia con tranquillità, i bimbi trovano un luogo di svago altrimenti non disponibile in inverno, e si riesce a combinare più tipo di acquisti: la spesa alimentare, qualche articolo di abbigliamento. Il tutto a prezzi accessibili.”

A sostenere che i centri commerciali rappresentano un nonluogo fu, prima di tutti, Marc Augé, ma ormai sono molti a impiegare il neologismo coniato dall’antropologo francese, e sempre con accezione negativa.

Riportando il discorso ad un livello meno narrativo, quello che ci si deve chiedere ormai è se ha senso barricarsi dietro i rimpianti per i tempi trascorsi, in cui erano le piazze dei centri storici a fungere da epicentro della vita di un paese.

Se è possibile che il modo di vivere i nonluoghi sia cambiato tanto radicalmente da far loro acquisire una dimensione di relazionalità inattesa. E se, infine, le contrapposizioni tra “centro storico” e “centro commerciale” o “outlet center”, siano state letteralmente scavalcate dai nuovi bisogni dei cittadini di oggi.

Forse è ora di vedere soltanto la realtà per come si presenta: la distribuzione moderna specializzata si sta gradualmente sostituendo alla distribuzione tradizionale dei centri storici. Ed è ora di adottare azioni concrete e urgenti per salvaguardare l’offerta commerciale dei centri storici.

Un’indagine realizzata nel 2009 ad un campione rappresentativo di emiliano romagnoli lo conferma: i risultati dell’indagine infatti palesano i cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi anni nelle abitudini di acquisto.

Quando si tratta di acquisti di abbigliamento e calzature, rispetto al 2002, anno per cui sono disponibili dati, si è inesorabilmente ridotto il peso della rete tradizionale dei centri storici, a cui si contrappone un sostanziale miglioramento delle performance della distribuzione specializzata moderna.

La forte crescita dei negozi dei centri commerciali (+16%) e degli outlet (ora al 9%, non presenti nel 2002), lascia intuire quanto sia fondamentale la funzione di luogo di aggregazione, rappresentato dalla galleria dei centri commerciali o dalla piazza delle città virtuali ricostruite dagli outlet center, nella scelta dei luoghi di shopping.

A soffrire maggiormente di questa concorrenza sono appunto i negozi dei centri storici, per i quali si registra un calo del 27%. Quasi un tracollo, a cui si oppone la crescita dei negozi di quartiere (+7%), che invece resistono evidentemente grazie al servizio di prossimità che sono capaci di garantire.

Il mercato ambulante continua ad essere frequentato dal 25% della popolazione: la disponibilità di un ampio assortimento a prezzi convenienti ha reso il commercio su aree pubbliche capace di resistere all’inasprimento della situazione concorrenziale.

Anche sul fronte degli acquisti di beni durevoli, come prodotti per la casa ed elettrodomestici, la distribuzione moderna specializzata si è quasi completamente sostituita alla distribuzione tradizionale.

Rispetto al 2002, le medio-grandi strutture di vendita hanno registrato un ampliamento della penetrazione in popolazione del 41%. I negozi del centro storico, se nel 2002 erano i primi tra le tipologie distributive utilizzate, ora sono appena il 3%: il 33% in meno.

I dati relativi al 2009 si riferiscono ai risultati dell’indagine curata da Iscom Group per l’Osservatorio prezzi e tariffe della Regione Emilia Romagna: “Indagine sugli stili di vita in Emilia Romagna”. Il campione impiegato, relativo alle province di Piacenza, Reggio Emilia, Ferrara, Ravenna e Rimini, conta 545 interviste, ottenuto con un campionamento casuale di famiglie residenti, stratificato per provincia e per comune

I dati relativi al 2002 si riferiscono alla pubblicazione “Indagine sulle abitudini di acquisto”, a cura di Iscom Group e Unioncamere E.R., basata su indagine campionaria di 2.773 interviste telefoniche realizzate ad aprile 2002 nelle province di Piacenza, Reggio Emilia, Ferrara, Ravenna e Rimini.

8 marzo 2010

I call center: uno slalom o una forma di comunicazione da curare?

Ormai si usano quasi esclusivamente i telefoni cellulari per le comunicazioni di lavoro, di conseguenza diventano sempre più rare le possibilità di interfacciarsi con un centralino. Ma quando capita ci si rende conto di quanta poca attenzione venga posta in questa occasione di comunicazione rivolta, tra l’altro, a potenziali clienti o collaboratori. Nell’ultima settimana mi sono capitati alcuni episodi emblematici.

Lunedì – Per un problema con il navigatore di una delle macchine aziendali, ho chiamato il customer care, e ho provato almeno 3 percorsi alternativi per avere assistenza tecnica e solo al terzo tentativo, gestito con molta fantasia rispetto alle mie esigenze, sono arrivata alla agognata proposta “se vuole parlare con un operatore digiti 8”. Ma poi, pur avendo trovata la strada, non sono riuscita a prendere la linea. Ironico per una società che produce navigatori no?

Martedì – L’ area business del nostro operatore telefonico non è da meno, ma almeno in quel caso, pur passando da un percorso che non c’entrava per nulla con le mie esigenze, sono riuscita a parlare con un operatore, esordendo però con un disperato: “non so se ho chiamato il servizio giusto, ma avrei bisogno di …”

Mercoledì – Telefonando ad un Ente Parco, il centralino invita gentilmente: “se si desidera parlare con il settore 1 digiti 1, con il settore 2 digiti 2 con il settore 3 digiti 3 con la riserva marina digiti 4 e con la direzione digiti 5. Io, non avendo modo di sapere a cosa corrispondessero questi fantomatici settori 1,2,3 per non disturbare il direttore ho messo giù e ho deciso di scrivere questo blog.

È evidente che nell’era del web chi si rivolge ad un call center lo fa perché non è riuscito a trovare una modalità alternativa di contatto su internet. E si pretenderebbe una modalità altrettanto agile di comunicazione.

Nessuno mette in discussione il fatto che questo sistema di indirizzamento automatico delle chiamate riduca i costi di gestione e in certi casi sia funzionale alle esigenze di chi chiama, ma quando sono richieste più di 2 scelte senza che venga proposto un “contatto umano” il consumatore percepisce immediatamente un disservizio.

Il giudizio non cambia per la gestione dell’attesa con musichetta, la stessa per tutti, salvo rare eccezioni che si ricordano, o la voce che ci comunica che le linee sono momentaneamente occupate… rappresenta l’ennesima barriera. Se ritrovo questa formula quando telefono a un ufficio privato, immediatamente lo associo alle interminabili attese per mettermi in contatto con qualche amministrazione pubblica.

Questa disattenzione su una forma di comunicazione diretta, di primo impatto, così diffusa mi stupisce. È palesemente un elemento di non qualità, oltre che un ostacolo nel rapporto con l’esterno, creato tra l’altro da chi vuole comunicare e per fare questo spende anche dei soldi.