Non si sta parlando dei polli firmati a uno a uno da Giovanni Amadori, ma di un metodo che è diventato valido soprattutto per i giovani. No way out. Di sicuro il personal branding mette sul piatto un concetto quasi sconosciuto in Italia (che sostengo a rischio di dare a questo post un taglio moralizzatore): il merito personale. I più capaci e quelli che meglio si ritagliano il loro posto al sole emergono.
Mi diceva un amico: “se io sono il più bravo a fare la punta alle matite e mi metto a fare tutorial su youtube, vengo contattato dalla stampa ogni qualvolta serva l’opinione dell’appuntatore di matite e così, intervento dopo intervento, barcamp dopo barcamp, intesso relazioni, contatti, scambio hashtag e retweet con i relativi partecipanti e acquisto expertise”. A parte la scelta paradossale la realtà non si allontana molto da questo esempio.
L’iter del personal brander infatti è più o meno questo:
- Leggo, leggo, leggo, poi intreccio relazioni e commento i post altrui,
- prendo appunti, conservo link e articoli interessanti con de.li.cious (o simili),
- seguo persone/aziende interessanti attraverso Google reader,
- monitoro parole chiave attraverso Google alert,
- tengo traccia dei progetti e degli interventi con Twitter,
- contatto interlocutori chiave per avere un loro parere, nella logica della wikicrazia.
Poi, dico la mia (in maniera asincrona).
Liberamente e quotidianamente: sui blog, forum e community.
Se sono conosciuto sul web comincio a prendere spunti in giro e magari chiedo la collaborazione di altri blogger (ho visto casi realmente partecipativi).
Rilascio sul blog il mio libro (o una buona presentazione su slide share) in versione completamente scaricabile e gratuita, così il mio nome comincia a girare, magari vengo invitato a barcamp, convegni, fiere per dare il mio contributo, la mia personale visione di esperto.
Ritagliarsi una nicchia è perciò l’imperativo per il personal brander, trovare uno spazio ancora incolmato che mi renda indispensabile come opinion leader, affidabile ma aperto e facilmente contattabile.
Ma fino a che punto? Fino a quando l’azienda che sta dietro l’avatar (se c’è un’azienda dietro) approfitterà di questa popolarità individuale? E di conseguenza: i brand hanno perso di identità?
Di sicuro è pervasivo il concetto di individuo, ma come non fare sfociare questo in egotismo?
Allora, forse, è arrivato il momento di tirare le fila del discorso definendo alcune linee di orientamento, valevoli nei settori in cui il personal branding funziona:
1 – il brand aziendale scomparirà? La sua identità no, ma di sicuro la geolocalizzazione definirà sempre di più i confini dell’azione del personal branding, a beneficio dei luoghi dove le persone vivono, lavorano, si relazionano e dove possono spendere la loro personal brand, altrove difficilmente replicabile. E il brand avrà il vantaggio non piccolo di adattare attraverso il personal branding la propria immagine locale (compresa l’organizzazione di eventi, comunicazione, marketing).
2 – il prodotto/servizio standard, format valido per qualsiasi binomio luogo-persone, è tecnicamente morto. Esisterà una sartorialità nella definizione dei prodotti maniacale. La rivincita dell’artigianalità contro il taylorismo dei servizi.
3 – se il fenomeno era cominciato come umanizzazione del brand, ora i personal brander si sono “montati la testa” e non hanno bisogno di un’azienda. Sono essi stessi l’azienda. La rivincita delle partite iva?
Il personal branding, nella sua accezione web, ancora non ha investito ambiti tradizionali come ad esempio il commercio, ma nulla vieta che questa opportunità sia sfruttata per caratterizzare l’offerta aziendale.
Infine, vi pongo un interrogativo aperto: un giorno si potrà diventare personal brandee acquistando servizi e prodotti per costruire il proprio personal branding su misura? Chi costruirà questi pacchetti: uno psicologo, un economista, un sociologo, un esperto di web marketing o un despecializzato che ha assorbito tutte queste discipline insieme?